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senzaquorum

villaggio globale

18 Giugno 2022, 09:38am

Molti probabilmente hanno già letto oppure semplicemente conoscono il famoso “Villaggio globale” (edizione in italiano: Marshall McLuhan /Bruce Powers “Il villaggio globale”, Sugarco edizioni, 1992) un saggio che ha segnato l’inizio di vaste riflessioni sull’avvenire tecnologico, mediatico, quindi economico e politico dell’intero pianeta. Ha coniato il mondialmente famoso concetto del “mezzo è il messaggio” vale a dire: il mezzo stesso di comunicazione è in sé la comunicazione. Uno degli aspetti interessanti dello studio è il suo carattere profetico relativo all’organizzazione socio-economica del nuovo millennio alle porte: il testo è stato infatti scritto nel 1989. Qui di seguito alcune citazioni che vanno in tal senso.

“Molte attività industriali estrattive, manifatturiere di basso livello e agricole - soprattutto a causa dell’alto costo della manodopera - saranno meno produttive  a causa della concorrenza delle industrie del Terzo modo. Ciò causerà una trasformazione obbligando alcune nazioni a una concorrenzialità feroce per produrre beni di consumo “di livello superiore” come apparecchi elettronici robotizzati o automobili elettriche per pendolari.”

“Mentre una parte della popolazione abbastanza istruita e mentalmente predisposta, potrà usufruire di questa alta tecnologia, molta della popolazione nativa non sarà preparata ad affrontare la nuova economia consumistiche sorgerà perché i settore terziario richiederà delle specializzazioni di cui essa non avrà competenza e una conoscenza adeguate.”

“Le decine di migliaia di cinesi, giapponesi, coreani, libanesi, messicani, centro-americani e indiani che approdano alle coste degli Statu Uniti, in modo legale e non, potranno utilizzare ampiamente le nuove tecnologie dei media. Centinaia di sitemi di comunicazione via cavo saranno diversificati secondo le lingue e le culture. Videocassette e videodischi apriranno nuovi spazi commerciali diffondendo la musica etnica, il cinema e le produzioni teatrali.”

“Le banche regionali impiegheranno mezzi elettronici per formare un nuovo sistema di prestiti e di contabilità, adatto agli usi delle minoranze. Le scuole di quartiere saranno destinate a gruppi linguistici specifici, come nel secolo scorso. Le nuove minoranze, sia ricche, sia povere, soprattutto a causa di un’integrazione troppo rapida, reagiranno creando ghetti articolati e autointegrati.”

“Anche se la maggior parte dei cittadini americani, abitanti in America da tre o quattro generazioni, risulteranno insensibili ai futuri cambiamenti, gli esponenti del governo e dell’industria, che hanno dei legami culturali più recenti con il proprio paese di origine, riconosceranno subito come un avvenimento inevitabile il fatto che [le città più importanti] diventeranno conglomerati politici totali. (…) Esse saranno abitate da bianchi, neri, asiatici e ispano-americani che si contenderanno quello che rimane dell’economia in una nazione dove ci sarà un calo nel tasso delle nascite di nativi nonché un invecchiamento continuo della popolazione bianca.”

Marshall McLuhan / Bruce R. Powers, “Il villaggio globale”, Sugarco Edizioni, 1992.

 

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pagine scomode

è uno spazio riservato a una saggistica poco frequentata. Vuoi perché assente dalle pagine letterarie preminenti, vuoi per i temi spesso assai negletti, magari sbrigativamente trattati dai media informativi. Oppure più semplicemente perché presenta riflessioni poco aderenti alla condizione ideologica egemone. Insomma: pagine scomode.


Inizio con un saggio breve, di una quarantina di pagine, scritto da un romanziere. Di solito i romanzieri si dedicano a racconti, a novelle e, appunto, scrivono romanzi. Ebbene in questo caso Jonathan Franzen ha riassunto in un appassionante libello (E se smettessimo di fingere, Einaudi, 2020) tutta la sua folgorante amarezza per l’unilaterale narrazione della questione climatica.

Un saggio controcorrente che accusa i movimenti ambientalisti di monopolizzare il discorso sul clima con la fuorviante speranza di una tecnologica soluzione, incentrata su l’ipotetica promessa di una ritrovata normalità.

Per Franzen il futuro è già arrivato e il compito della governance mondiale è ormai quello di iniziare a gestire le devastanti conseguenze già in atto. Dà per scontata l’impossibilità di supporre l’umanità intera capace di agire all’unisono per scongiurare un disastro annunciato . “Per me , il fatto che qualcuno possa davvero immaginare che il mondo rinuncerà volentieri ai viaggi in aereo e alle tv a grande schermo è un semplice esempio dell’umorismo nero del cambiamento climatico.” (p.30)

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Il secondo invece è un saggio di quasi trecento pagine che mi ricorda i temi affrontati in alcuni film di Ken Loach, o narrati con la poetica dei fratelli Dardenne. Racconta la vita di una periferia. Periferia nel senso più ampio del termine. I fatti si svolgono a Glasgow. Ed è un viaggio “nella rabbia della mia gente” come narra il sottotitolo. L’ha scritto Derren McGarvey, un rapper con il nome d’arte Loki, uno di loro. Niente sociologia: uno spietato diario.

Anche in questo caso l’intero saggio è un atto di accusa dei metodi con i quali la mentalità progressista intende occuparsi degli “ultimi”. C’è pure disaccordo, si dice, nel definire chi siano in effetti “gli ultimi”. Spesso la definizione degli ultimi è, per McGarvey, viziata dall’ingombrante unilateralità dell’ideologica dominante. Un racconto puntuale, potente e necessario. Proprio come è già stato definito. Potente in ogni caso. Ma pure necessario e puntuale.

Il suo titolo, che mi permetto di definire tuttavia infelice, suona così: Poverty Safari, Rizzoli, 2018. Infelice come la circostanza che lo ha determinato. Un maldestro commento espresso da McGarvey stesso nei confronti di un’operazione mediatica iniziata, altrettanto maldestramente, da una giornalista chiamata a effettuare, secondo Loki, un cinico safari (mediatico) nella povertà della periferia. Tuttavia le quasi trecento pagine riscattano ogni malinteso.

“Le questioni di classe sono celate sotto una patina di progressismo, con la politica d’identità che diventa l’ennesimo strumento, nelle mani di chi può muoversi sulla scala sociale, per dominare ogni aspetto della vita pubblica” (p.219)

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Il terzo della serie si presenta in modo riduttivo: Zig Zag, Einaudi, 1998: per contro il suo contenuto è inversamente proporzionale al minimalismo del suo titolo. Due considerazioni incontrate verso la fine del saggio (p. 151) nelle quali Hans Magnus Enzensberger si interroga su cosa possano essere (lo scrive, appunto, nel ‘97) le libertà essenziali per un’occidentale …esistenza degna di essere vissuta. Lo fa ponendosi una domanda a sapere se il lusso privato possa ancora avere un senso, e quale forma possa assumere in futuro. E qui, a mio parere, arriva l’interessante. Perché sorgerebbe spontaneo il richiamarsi al lusso dell’abbondanza, il contornarsi del superfluo, il fregiarsi di un tratto distintivo fatto di oggetti di prestigio, di ricchezza ben esposta, di sgargiante kitsch estetico. Ebbene no. Non si va da quelle parti.

Certo si potrebbe anche integrare codesta condizione di luccicanti privilegi fatta di oggetti da sogno ma, probabilmente e in questo caso, essa è considerata dall’autore, subalterna a sei altri aspetti di …vitale ricchezza: il tempo, l’attenzione, lo spazio, la tranquillità, l’ambiente , la sicurezza.

Ora si pone un problema, che Enzensberger probabilmente non desidera esporci. Per non infierire. Ma nel mio piccolo mi permetto di rilevare, senza l’intenzione di infierire. Se questo è il lusso del futuro, come il saggista tedesco lascia intendere, significa che per il resto dell’umanità, diciamo la maggioranza …silenziosa, tutto ciò non potrà esistere. Semmai in misura assai marginale. Probabilmente è proprio qui che l’ambiguo concetto di diffusa libertà individuale diventa il potente strumento retorico indispensabile al mantenimento del placido inganno.  

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(«La richesse [scrivevano Monique Pinçon-Charlot et Michel Pinçon] offre la possibilité de libérer son temps et son esprit de toute une série de problèmes matériels qui empoisonnent la vie de la plupart des gens. »)

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Ritorniamo nel tempo.
Dahrendorf l’ha scritto nel 1995, questo vecchio-giovane …saggio. Quasi trent’anni. Ben portati. Un sorso di elisir. Il titolo: Quadrare il cerchio. Il sottotitolo: Benessere economico, coesione sociale e libertà politica. Una citazione:

La globalizzazione ha creato una classe media anonima, atomizzata, priva di radici, abbandonata a lavori precari e a una mobilità economicamente inevitabile e socialmente devastante. Ha distrutto al tempo stesso la coscienza di classe del proletariato e della borghesia. Ha fatto del mercato non soltanto un prezioso meccanismo per misurare l’efficienza, ma un potere, anzi il Potere per eccellenza, il Valore, la sola ideologia rimasta in piedi sulle macerie di tutte le altre”.

Altro da aggiungere? Non credo. Una sintesi perfetta contro le troppe chiacchiere spese inutilmente in questo trentennio di economicismo da rampanti.

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Esiste oppure non esiste la società?
 

Domanda da un centilione.
Secondo la signora Thatcher la società non esiste. L’ha detto, senza tanti giri di parole ”There is no such thing as society“, il 31 ottobre 1987. D’altra parte la medesima signora, con piglio assai poco democratico, affermava pure che non esiste alternativa alla nuova concezione del mondo mercantile. “There is no alternative” rispondeva a chi le chiedeva il perché del voler proseguire sulla via di un neo-mercantilismo trituratore sociale.


Ebbene alla luce di questi “democratici” presupposti economici, c’è chi si è voluto chinare, per tutti noi, nel considerare per mezzo di precise analisi, le conseguenze ultime di tali preoccupanti condizioni dottrinali. Parecchie le loro indagini, tuttavia lasciate – a dire il vero – negli angoli bui delle librerie di settore. Poco o nulla è trapelato, per il grande pubblico, attraverso le fonti ufficiali: avrebbe sollevato interrogativi insalubri.


Uno di codesti interessanti autori è un geografo francese, Christophe Guilluy. Trascurato dai grandi media, viceversa assai conosciuto negli stessi ambienti che lo negano. Il saggio di cui vi parlo è l’unico, almeno mi sembra, che tuttora sia stato tradotto in italiano. Il titolo, appunto: La società non esiste. La fine della classe media occidentale, edizioni Luiss, 2019.

Eccovi cinque brevi citazioni:


“La strategia della demonizzazione delle opinioni, insomma, funziona in Occidente come un avvertimento per gli intellettuali, gli accademici e per tutti coloro i quali detengono il potere decisionale in ambito economico, un ammonimento a non prestare ascolto alle classi popolari e a non mettere in discussione il modello unico”.


“Mostrare che la crescita è positiva è diventato talmente decisivo che si è finiti per includere nel conto anche i settori, alquanto dubbi, della prostituzione e della droga! Dal 2013, infatti, l’Eurostat chiede ufficialmente agli Stati membri di includere il traffico di droga e la prostituzione nelle statistiche nazionali”.


“Il discorso dell’apertura al mondo e agli altri non è più sostenibile se si guarda alle strategie di autoconfinamento residenziale e scolastico che la borghesia globalizzata ha attuato in netta contraddizione con le idee che afferma di sostenere”.


“L’uso spregiativo dell’espressione francese petit blanc, che ricorda l’uso del termine white trash da parte della borghesia americana, non soltanto consente di isolare alcune categorie delegittimandole, ma anche di relegarle in uno schema di determinismo razziale di marginalizzazione culturale e politica”.


Altre pubblicazioni in lingua francese: “Fractures françaises, 2010 / La France périphérique, 2014. Le Crépuscule de la France d’en Haut, 2016. Le temps des gens ordinaires, 2020.

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Di Dahrendorf, nello scaffale, ho trovato un altro saggio breve: intenso e critico nei confronti di quella che lo “Zeitgeist” ritiene l’unica “via democratica” verso un comune progresso.
Ralf Dahrendorf, Libertà attiva, Laterza, 2005


“La globalizzazione è diventata il grande alibi, di solito per aumentare i guadagni diminuendo i servizi. Giacché ha sempre significato anche l’incoraggiamento di un capitalismo sempre più orientato al guadagno, che ha scrollato i vincoli della solidarietà corporativa, della responsabilità a lungo termine e dell’impegno sociale.”


“La politica dello sviluppo dovrebbe concentrarsi sui presupposti di una crescita duratura enumerati da Landes [ David S. Landes] e soprattutto da Sen [ Amartya Sen], assai più che sugli spettacolari successi di singoli imprenditori o anche da singoli settori dell’economia. L’aiuto finanziario è indispensabile non tanto per gli investimenti – qui bisogna affidarsi al mercato – quanto per la tutela di coloro che rischiano di perire nella valle di lacrime.”


“Gli uomini debbono essere disposti a mettere da parte i loro segreti desideri e, in primo luogo, a risparmiare e a lavorare. Ma questo non è il tratto distintivo dei valori del mondo postmoderno, che al contrario sono riferiti in tutto e per tutto all’attimo fuggente. (…) La globalizzazione ha trovato un’altra valvola per i conflitti latenti: l’emigrazione. Perché lavorare e risparmiare in patria per due generazioni, quando il risultato si può raggiungere (forse) già domani a Vancouver o a Londra? E se non a Vancouver e a Londra, restano sempre Shanghai e Varsavia. Il parallelo mondiale della mobilità sociale all’interno delle società è l’emigrazione. Essa risolve i conflitti nei paesi d’origine e ne crea di nuovi in quelli d’arrivo.”


“La libertà non deve diventare un privilegio, il che significa che un principio della politica della libertà è quello di estendere a più persone, teoricamente a tutti gli uomini, i diritti e le offerte di cui già godiamo noi stessi. Ho già accennato che si tratta di un compito difficile. Per risolverlo non basta la beneficienza. Servono intuizione, fantasia, pazienza, tenacia e soprattutto sforzi incessanti per migliorare il benessere degli uomini. Ciò vale per per gli esclusi dei paesi ricchi come per la grande maggioranza degli abitanti di quelli poveri.”

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Nel gennaio del 2019 è uscito per le edizioni Laterza, un importante lavoro di Chiara Volpato dal titolo “Le radici psicologiche della disuguaglianza”. Uno studio serio, ragionato e documentato del processo con il quale le nostre società alimentano le disuguaglianze sociali. Un saggio che ogni studioso di fenomeni di coesione sociale contemporanei dovrebbe, a mio parere, aver letto.

"Il classismo è una forma di violenza simbolica - la violenza che, secondo Bourdieu, si esercita su qualcuno con la sua complicità - che serve a mantenere il controllo sociale. A essere rigorosi, la definizione di classismo comprende sia gli atteggiamenti verso individui e gruppi percepiti come superiori, sia quelli verso individui e gruppi percepiti come inferiori, sia quelli verso individui che appartengono alla nostra stessa nicchia sociale, ma dei quali vogliamo prendere le distanze per sentirci parte di un gruppo superiore.”

"La psicologia sociale non si è occupata approfonditamente del classismo, avendo, come detto, dedicato maggiore attenzione al razzismo e sessismo. In questo non è però sola: sono state più volte denunciate le difficoltà di comprensione del classismo da parte degli psicologi clinici e molte indagini hanno posto in evidenza come gli stessi professionisti dei servizi sociali spesso percepiscano i poveri e gli appartenenti alla working class con uno sguardo classiste e, di conseguenza, li trattino con impazienza e mancanza di rispetto, provocando profondi e persistenti sentimenti di umiliazione.”

Secondo Stephanie Lawler (2005) nelle società occidentali le classi medie percepiscono le classi popolari come un’alterità che viene identificata con il corpo, la materialità, la mancanza - di gusto, di controllo, di capacità, persino di umanità - tanto che l’autrice parla di un “deficit model” che stigmatizza le classi considerate inferiori.”

"Stereotipi simili si trovano negli Stati Uniti, dove l’etichetta white trash presenta i bianchi marginali delle campagne e delle periferie come stupidi, volgari, violenti e privi di inibizioni sessuali, e in Australia, dove i  bogans sono descritti in modo che ricordano la stereotitpizzazione delle razze considerate inferiori in epoca coloniale.”

"Uno degli aspetti più importanti del lavoro dei sociologi francesi sta proprio nell’aver messo in luce la contraddizione tra l’individualismo esibito e il collettivismo sostanziale che connotano il mondo dei privilegiati. Mentre impongono all’intera società il mito di una superiorità basata sul merito, che costituisce la base dell’individualismo e permette il culto di personalità eccezionali, la vita reale dell’alta società è improntata a un collettivismo quotidiano, pragmatico, intessuto di un incessante lavoro teso a rafforzare il gruppo, educare le giovani generazioni, tutelare il proprio vantaggio, costruire barriere che evitino pericolose promiscuità.”

Le reazione dei dominanti al loro privilegio possono assumere diverse sfaccettature: negazione dell’idea di essere privilegiati; minimizzazione della posizione di superiorità; affermazione che il gruppo dominante costituisce il canone e i gruppi minoritari non possano quindi che adeguarsi ai suoi standard; benevolenza verso il basso, che si traduce in atti di paternalismo, carità e beneficienza; intelletualizzazione, illustrata da affermazioni come “io non ho pregiudizi, il mio migliore amico appartiene ad un ambiente sociale modesto; razionalizzazione del tipo: “non dipende da me, le disuguaglianze ci sono sempre state e sempre ci saranno” (Blumenfeld&Jaockel, 2012)

Un’altra strategia che aiuta a tenere a bada possibili sensi di colpa per i propri privilegi consiste nella redistribuzione della responsabilità dai membri delle classi elevate ai membri delle cosiddette classi inferiori, che vengono biasimati per la loro condizione: essere poveri diventa una colpa, originata da deficienze culturali, mancanza di capacità o di volontà.

Le formazioni predatorie non traggono profitto dal lavoro, ma dalla distruzione della ricchezza altrui e della stessa biosfera, provocando l’esclusione e l’impoverimento di masse crescenti di persone, che non hanno più valore né come lavoratori né come consumatori. Queste faticano a ribellarsi sia perché sopravvivono in luoghi lontani dai loro oppressori, sia perché l’oppressore è difficilmente identificabile, dato che consiste in un sistema complesso, senza un centro definito.”

Proprio come afferma Walter Benn Michaels nel suo “The Trouble with Diversity: How We Learned to Love Identity and Ignore Inequality” (2007) / traduzione francese “La diversité contre l’égalité”, édition Raison d’agir, 2009: “In una società dove solamente il 7% ca della popolazione ha un reddito annuale di 100’000 dollari, il fatto che il 64% della popolazione globale s’immagina di poter raggiungere questo 7% rivela un profondo errore di valutazione."

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Questo agile saggio, “La grande regressione”, è una raccolta di testi scritti da quindici diversi autori; il titolo si rifà al più famoso e fondamentale saggio “The Great Transformation” pubblicato nel 1944 per la penna di Karl Polanyi (La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, 1974).

Se ne “La Grande trasformazione” Polanyi tracciava una documentata riflessione sul miraggio progressista promesso dal liberalismo economico nella società industriale occidentale, ne “La grande regressione” quindici intellettuali propongono una critica attualizzata di che cosa in realtà è accaduto dopo più di mezzo secolo. Un libretto, in edizione economica, assolutamente da leggere.

(La grande regressione, Universale economica Feltrinelli, 2018.)

 

Per capire l’attuale situazione, i politologi usano e abusano del termine “populismo”. Si accusa il “popolo” di crogiolarsi in ottiche anguste, nelle proprie paure, nella diffidenza innata verso le élite, nel cattivo gusto culturale e soprattutto nella passione per l’identità, il folclore, l’arcaismo e le frontiere – senza dimenticare il rimprovero di una colpevole indifferenza ai fatti. Il “popolo” mancherebbe di generosità, di apertura mentale, di razionalità, avrebbe perso il gusto per il rischio (che meraviglia l’elogio del gusto per il rischio, pronunciato da coloro che sono al sicuro da tutto ovunque le miglia accumulate permetto loro di vere!). Ciò significa dimenticare come questo “popolo” sia stato tradito da coloro che hanno abbandonato l’idea di realizzare davvero la modernizzazione del pianeta con tutto il mondo, in quanto hanno capito, prima e meglio di tutti, che era impossibile in mancanza di un pianeta abbastanza vasto per i loro sogni di crescita illimitata”. Bruno Latour

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Nella sua forma americana, il neoliberismo progressista indica un’alleanza tra le correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (il femminismo, l’antirazzismo, il multiculturalismo, e i diritti Lgbtq) e i settori “simbolici” di alto livello e basati sui servizi del mondo degli affari.”

“Dietro all’ideale della famiglia a doppio reddito, presentata come un trionfo femminista, si celava una realtà fatta di livelli salariali più bassi, meno sicurezza sul lavoro, un tenore di vita inferiore, un forte amento degli orari di lavoro per nucleo familiare, un’esasperazione del doppio turno, spesso triplo o quadruplo) un aumento dei nuclei familiari a guida femminile e il tentativo disperato di scaricare i servizi di cura sugli altri, soprattutto su donne povere immigrate”.

“Il clintonismo, in breve é il principale responsabile dell’indebolimento dei sindacati, del calo dei salari reali, dell’aumento della precarietà e dell’avvento della cosiddetta “famiglia a doppio redditi” al posto dello scomparso reddito famigliare”. Nancy Fraser

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“In secondo luogo, l’immigrazione dai paesi esteuropei era stata orientata allo scopo di diminuire i salari e peggiorare le condizioni di lavoro, anche se l’esito macroeconomico generale fu pressoché impercettibile. La forza lavoro dell’Est si inserì perfettamente nelle nuove istituzioni del lavoro precario. E con le sentenze “Viking” e “Laval” della Corte di giustizia europea, venne sancito il diritto dei datori di lavoro a “spedire” i lavoratori a basso costo da un paese all’altro”. Paul Mason

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“Da un paio di anni il concetto di populismo viene usato su scala mondiale dai partiti e dai media dell’internazionalismo liberale come definizione generale per connotare polemicamente le nuove opposizioni che premono per dare alternative nazionali a quella internazionalizzazione che viene invece dichiarata necessaria e inevitabile”.


“L’identitarismo cosmopolita della leadership dell’era neoliberista, sviluppandosi anche a partire dall’universalismo di sinistra, innesca una reazione di identitarismo nazionalista, mentre gli interventi correttivi antinazionalisti adottati dall’alto generano un nazionalismo antielitario proveniente dal basso (…) è infatti meglio una democrazia nazionale oggi, anziché una democrazia della società mondiale domani”. Wolfgang Streeck

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Un decennio fa, il filosofo ed ex dissidente ungherese Gáspár Miklós Tamás faceva notare come l’Illuminismo, fra cui l’idea di Unione europea affonda le sue radici, preveda una cittadinanza universale. Tale cittadinanza però necessita di due precondizioni: o i paesi poveri e disfunzionali diventano paesi in cui valga la pena vivere, oppure (l’Europa) deve aprire a tutti le sue frontiere. Niente di tutto questo avverrà nel prossimo futuro e forse mai accadrà. Oggi il mondo è popolato da numerosi stati falliti di cui nessuno vuole essere cittadino e l’Europa non ha la capacità di tenere aperte le frontiere, una cosa a cui i suoi cittadini o elettori non acconsentirebbero”. Ivan Krastev

 

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È inutile “mettere la freccia a sinistra”, se non si può sorpassare. E il sorpasso del capitalismo, anche da sinistra, è impossibile se se ne condivide l’immaginario essenziale.


Citazione dalla quarta di copertina de “Il vicolo cieco dell’economia, sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo. Jean-Claude Michéa, ed. Elèuthera, 2004


“Il potere della gente comune” scriveva Wright Mills “è circoscritto all’universo quotidiano, e tuttavia, anche all’interno di quegli ambiti rappresentati del lavoro, dalla famiglia, dal vicinato, le persone sembrano spinte da forze che non possono né capire né governare.”


“Il capitalismo porta alle code davanti agli sportelli dell’assistenza pubblica, alla lotta spietata per i mercati e alla guerra. Il collettivismo spinge verso i campi di concentramento, il culto del capo e la guerra. (Orwell). Il solo mezzo per sottrarsi al “senso di impotenza” che pervade il lettore davanti a queste opere consisterebbe, evidentemente, nel rifiutare la comune problematica, nel farla finita con l’idea che la felicità degli individui dipenda essenzialmente dall’attivazione di un “buon meccanismo”.


(…) “le forme di individualizzazione imposte dal capitalismo consumista (quell’uomo psicologico del nostro tempo, ultimo esemplare dell’individualismo borghese) ha delimitato in anticipo lo stretto quadro psicologico e intellettuale al cui interno si sarebbero poi dibattuti i militanti della sinistra “plurale” e “moderna*, e più in generale i rappresentanti di quelle nuove classi medie la cui falsa coscienza è diventata lo spirito dei tempi.“


“Questa sinistra moderna o “liberal-libertaria” che tiene ormai il controllo “dell’industria della buona coscienza” domina a questo titolo quasi tutti i settori dello spettacolo e della cultura “giovanile” che ne è il principio unificante, rappresenta la forma ideologica più efficace e più atta a preparare, accompagnare e celebrare le temibili evoluzioni future di un’economia che si sviluppa per conto proprio.“


“Le nuove élite del capitalismo avanzato, profondamente radicate nell’economia planetaria e nelle sue tecnologie sofisticate, culturalmente liberali, ovvero “moderne”, “aperte”, addirittura “di sinistra”, man mano che il loro potere cresce e si globalizza manifestano un crescente disprezzo per i valori e le virtù che un tempo erano alla base dell’ideale democratico. Rinchiusi nelle molteplici reti all’interno delle quali “nomadizzano”, esse vivono il proprio ritirarsi nel mondo umanamente limitato dell’economia come una nobile avventure “cosmopolita” mentre ogni giorno diventa sempre più evidente la loro drammatica incapacità a capire ciò che non è simile a loro: in primo luogo la gente comune dei loro stessi Paesi.“


“Il ruolo insolito che gira, nella buona coscienza delle classi privilegiate contemporanee, la compassione filantropica per “l’escluso”, che sia il senzatetto, l’immigrato clandestino, il giovane di periferia…. Il fatto è che l’escluso, se gli si assegna il monopolio della sofferenza legittima, presente un doppio vantaggio: innanzi tutto quello di appartenere a una categoria minoritaria per definizione (il che limita automaticamente il campo dell’ingiustizia e quindi quello della cattiva coscienza) poi, e soprattutto, quello di permettere di spostare in un colpo solo l’insieme dei lavoratori ordinari, inseriti nel sistema di sfruttamento classico, dalla parte dei benestanti e dei privilegiati.“


“Siamo semplicemente arrivati a un punto in cui sarebbe possibile attuare un miglioramento reale della vita umana, ma non ci riusciremo se non ammettendo l’indispensabilità dei valori morali dell’uomo comune (without the recognition that common decency is necessary). «La mia principale di speranza per l’avvenire sta nel fatto che la gente comune è sempre rimasta fedele al proprio codice morale» (George Orwell).“


“La semplice esigenza di conservare un lavoro relativamente stabile e degno all’interno di una situazione minimamente umana, di disporre di un reddito quasi dignitoso, di una vecchiaia tutelata, di qualche cura gratuita, addirittura di qualche spazio di meritato riposo – tutto questo, ci vien detto oggi, rappresenta una sfilata di capricci inaccettabili, perché contrari alle leggi dell’economia.“


Condividere codeste citazioni oppure essere totalmente lontani dai concetti espressi, potrebbe, nei due casi, essere lecito. Comunque varrebbe la pena approfondirli e magari condividerli con il grande pubblico. Missione impossibile per l’informazione “nostrana”?


Altri titoli firmati Jean Claude Michéa:

Impasse Adam Smith - 2002 / L'empire de moindre mal - 2007 / Les mystères de la gauche - 2013 / Notre ennemi, le capital - 2018 / Le loup dans la bergerie - 2018. Champs essais Flammarion.

Traduzioni in lingua italiana: Il lupo nell'ovile, Meltemi, 2020 / I misteri della sinistra, Neri Pozza, 2015 Il nostro comune nemico, Neri Pozza, 2018

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Nel suo “racconto saggistico” – un mémoire autobiografico – dal titolo Ritorno a Reims, (Bompiani, 2017) Didier Eribon narra e analizza il suo percorso di “transfuga di classe”. Ritorno a Reims è stato trasposto anche in una pièce teatrale omonima per la regia di Thomas Ostermeier. Eribon non necessita di molte presentazioni. Intellettuale francese noto (anche) per le sue posizioni assai critiche relativamente alla "metamorfosi" della sinistra francese, che da storica interprete dei diritti collettivi del mondo dei salariati, si è spostata verso posizioni a difesa dei diritti individuali nell’atomizzato mondo delle minoranze.


Il gusto per l’arte si apprende. Io lo appresi. Fece parte della rieducazione quasi completa che dovetti realizzare per entrare in un altro mondo, un’altra classe sociale, e per allontanare il mondo e la classe sociale da cui provenivo. L’interesse per l’arte o la letteratura partecipa sempre, in modo più o meno cosciente, a una definizione valorizzante di sé attraverso la differenziazione da coloro che non vi hanno accesso, attraverso una “distinzione” nel senso di uno scarto, costitutivo di sé e dell’immagine che si ha di se stessi rispetto agli altri – le classi “inferiori” – “senza cultura”. Quante volte, durante la mia vita di persona “colta”, ho potuto constatare, vistando una mostra, assistendo a un concerto o a una rappresentazione all’opera, fino che punto le persone che si consacrano alle pratiche culturali più “alte” sembrano trarre da queste attività una sorta di autocompiacimento e un sentimento di superiorità.”


Ho il forte timore che certi intellettuali che si riempiono la bocca con i “saperi spontanei” delle classi popolari corrano il rischio di trovarsi davanti a forti smentite e a cocenti delusioni. (…) così facendo non dimostrano altro che il loro egocentrismo di classe, non fanno altro che proiettare il loro pensiero sulle persone che dicono di ascoltare attentamente.”


La sinistra socialista iniziava un percorso di profonda trasformazione, che si sarebbe accentuato ogni anno di più. Cominciava a posizionarsi con un entusiasmo sospetto sotto l’influenza di intellettuali neoconservatori che, con la scusa di rinnovare il pensiero di sinistra, si adoperavano, per cancellare tutto ciò che rendeva tale la sinistra. Si venne così a produrre una metamorfosi generale e profonda sia dell’ethos che dei punti di riferimento intellettuali. Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di modernizzazione necessaria e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”.


Mio padre era contento quando la persona che lui considerava il portavoce di ciò che pensava e sentiva, arrivava a rendere giustizia a tutti coloro che non sentivano mai parlare in questo genere di circostanze, a tutti coloro la cui esistenza stessa era sistematicamente esclusa dal paesaggio della politica, quella legittima. Perché la persona in questione, invece di rispondere alle domande da politicante, attraverso le quali il giornalismo voleva circoscrivere il suo discorso, evocava i problemi reali degli operai.

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Ho ritrovato Eribon e il suo “Ritorno a Reims” nella lunga citazione proposta da Edward Luce ne “Il tramonto del liberalismo occidentale”, Einaudi, 2017. Luce ne parla in modo sintetico tuttavia esaustivo da pagina 110 a pagina 116.


“Come dice Eribon, è solo quando si passa da un mondo a un altro – e si supera la linea di confine tra due universi radicalmente differenti – che ci si rende conto di quanto piccolo sia il capitale sociale che si possiede. I vantaggi di crescere dalla parte giusta sono troppo impliciti per poter essere elencati. Sono pochi che hanno sperimentato questo passaggio a cogliere l’impotenza di coloro che si sono lasciati alle spalle.” (p. 114)


Non è casuale il concetto di questa prima citazione relativamente a tutto il contenuto nel notevole saggio di Luce: insomma la questione dei vincenti e dei perdenti della globalizzazione. Così come è convincente la sua disamina sul vero/presunto, possibile/probabile tramonto del liberalismo occidentale. È già nella prefazione che Luce sintetizza telegraficamente la narrazione del processo in atto.


È venuta a mancare la fiducia collettiva nel fatto che, in una società, si sia tutti sulla stessa barca, élite incluse, una sorta di referendum invisibile che è l’essenza stessa del contratto sociale occidentale. La colpa, in parte, è di quelle politiche identitarie che considerano la società meno della somma delle sue parti: hanno contribuito ad alimentare la reazione delle comunità bianche maggioritarie che ora stanno adottando le strategie politiche delle minoranze.”


Tuttavia il più forte collante della democrazia liberale è la crescita economica. Quando alcuni gruppi si contendono i frutti della crescita, è relativamente facile mantenere le regole del gioco politico. Ma quando questi frutti si esauriscono o sono monopolizzati da una fortunata minoranza, le cose possono mettersi male”.
“Gli stessi governi che stavano tagliando il welfare stavano anche permettendo agli ultimi arrivati di entrare nel sistema, e questo ha offeso il senso di giustizia delle persone.


Nel corso della mia vita, la classe media emergente è passata in pratica dalla non esistenza al ruolo di motore della crescita globale, sostituendo la classe media occidentale. Dal 1970, il reddito pro capite in Asia è quintuplicato. Perfino in Africa, dal punto di vista economico il continente coi risultati peggiori al mondo, è raddoppiato. Nel frattempo, in Occidente, il reddito medio negli ultimi cinquant’anni si è alzato a malapena.”


Secondo uno studio di Harvard, a frequentare le grandi università d’élite americane sono più gli studenti dell’1 per cento più ricco che tutti quelli del 60 per cento piu povero. Tra gli americani più abbienti, circa uno su quattro ha frequentato un’università d’élite, contro meno della metà dell’1 per cento di coloro che appartengono all’ultimo quinto delle fasce di reddito. La cosa più importante in assoluto è il letto in cui siete stati concepiti. Perché i perdenti non dovrebbero essere arrabbiati?

Inoltre:

I ricchi vivranno in comunità recintate e strutture sicure, protetti dai droni e collegati tramite automobili senza pilota – prevedono Yascha Mounk e Lee Drutman, due tra i più fini scienziati politici in circolazione. – Le migliori tecnologie di sorveglianza contribuiranno a monitorare le attività del malcontento esterno…”.
“Lo sviluppo di élite senza nazionalità, la cui fedeltà va al successo economico globale e alla propria ricchezza privata, piuttosto che agli interessi del Paese in cui fissano la propria sede.


Dani Rodrik parla di «trilemma globale», non possiamo perseguire simultaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica.”

 

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L’autore del famoso “Fine della storia e l’ultimo uomo” scritto nel 1992, ha pubblicato nel 2018 un controverso nuovo saggio dal titolo assai minimo: “Identità”. Semplice titolo per l’imponente tema trattato. Vasta, pure, la discussione scatenata attorno al suo autore: Francis Fukuyama.


Si potrebbe riassumere il dibattito sollevato tra gli estimatori e i critici di Fukuyama, partendo dal fatto che il tema centrale del saggio in questione sia una puntuale critica ai movimenti democratici progressisti. Il tema si muove attorno all’idea che la cosiddetta “sinistra occidentale” abbia in realtà abbandonato le classiche e originarie rivendicazioni economiche a protezione delle classi lavoratrici, per spostarsi a celebrare forme sempre più particolari d’identità specifiche, ciò a scapito dell’idea di un collettivo miglioramento economico e sociale condiviso.


Il problema con la sinistra odierna sta nelle particolari forme d’identità che questa ha deciso sempre di più di esaltare. Anziché costruire solidarietà attorno a vaste collettività come la classe operaia o gli economicamente sfruttati, si è concentrata su gruppi sempre più ristretti che si trovano emarginati secondo specifiche modalità”.


Per alcuni progressisti la politica identitaria è diventata il misero sostituto di una seria riflessione su come ribaltare la tendenza trentennale che in gran parte delle democrazie liberali punta a una maggiore disuguaglianza socioeconomica . È più facile discutere di questioni culturali entro i confini delle istituzioni d’élite che non appropriarsi di denaro o convincere i legislatori scettici a cambiare linea politica. Le manifestazioni più visibili della politica identitaria sono comparse nei campus universitari a partire dagli anni ottanta. Modificare i programmi di studio includendovi testi di donne e di autori appartenenti alle minoranze è meno difficile che intervenire sui redditi o le condizioni sociali dei gruppi in questione.


La sinistra continuava a trovare la propria definizione nella passione per l’uguaglianza, ma quell’agenda si spostò dalla precedente enfasi sulle condizioni della classe operaia alle richieste spesso di tipo psicologico avanzate da una cerchia più ampia di gruppi emarginati. Molti attivisti finirono per vedere la vecchia classe lavoratrice e i suoi sindacati come una fascia privilegiata che mostrava scarsa solidarietà per la situazione di gruppi come immigrati o le minoranze razziali, molto più critica di quella dei lavoratori.”


“L’indebolimento a livello mondiale della sinistra è per molti versi un esito sorprendente, considerando la crescita della disuguaglianza globale nell’arco dell’ultimo trentennio. (…) i redditi dei paesi ricchi hanno preso un andamento divergente e non convergente. Non c’e quasi regione al mondo che non abbia assistito alla nascita di una nuova classe di oligarchi: miliardari che usano politicamente la propria ricchezza per proteggere gli interessi della loro famiglia.”

 

L’economista Branko Milanovic ha ideato un assai citato ”grafico a elefante” che mostra i relativi guadagni nel reddito pro capite per differenti segmenti della distribuzione globale del reddito. Il mondo è diventato più ricco (…) ma la parte della popolazione globale attorno all’ottantesimo percentile ha conosciuto o stagnazione o guadagni marginali. Questo gruppo corrisponde in larga misura alla classe lavoratrice nei paesi sviluppati, cioè a persone con istruzione da scuola superiore o di livello minore”.


“Le democrazie liberali del mondo reale non sono mai state pienamente all’altezza degli ideali di libertà e di uguaglianza che ne costituivano le fondamenta. I diritti vengono spesso violati; la legge non si applica mai allo stesso modo ai ricchi e potenti e ai poveri e ai deboli; i cittadini, pur disponendo dell’opportunità di partecipare, spesso se ne astengono. Esistono poi anche conflitti interni agli obiettivi di libertà e uguaglianza: una maggiore libertà spesso comporta una crescente disuguaglianza, mentre gli sforzi per parificare i risultati riducono la libertà.”


“Fino agli anni sessanta a dedicare attenzione all’identità erano stati soprattutto quelli che volevano dare concretezza alla proprie potenzialità individuali, ma con l’emergere di questi movimenti sociali, molti giunsero spontaneamente a pensare ai propri fini obiettivi in termini di dignità deo gruppi dei quali avevano parte. La ricerca sui movimenti etnici a livello mondiale ha dimostrato che l’autostima individuale è collegata alla stima conferita al gruppo più vasto al quale si è associati; in questo modo il politico influenzerebbe il personale.”


Il termine “multiculturalismo” era originariamente per riferirsi a vasti gruppi culturali come i canadesi francofoni o gli immigrati musulmani o gli afroamericani. Ma questi gruppi si frammentarono ulteriormente in gruppi più ridotti e più specifici, con esperienze distinte, e anche in gruppi definiti dall’intersezione di differenti forme di discriminazione, come le donne di colore, la cui vita non poteva essere compresa vedendola attraverso la lente della sola razza o del solo genere.”


“L’idea che ogni gruppo abbia una propria identità inaccessibile agli elementi esterni si rifletteva nell’uso dell’espressione esperienza vissuta, espressione che a partire dagli anni settanta ha conosciuto una crescita esplosiva nella cultura popolare. La distinzione tra esperienza ed esperienza vissuta trova lesse radici nella differenza tra i vocaboli tedeschi Erfahrung ed Erlebnis, che richiamò l’attenzione di numerosi pensatori nel XIX secolo. Erfahrung si riferisce ad esperienze che è possibile condividere, come quando due persone assistono ad esperimenti di chimica in due diversi laboratori. Con Erlebnis (che comprende il termine Leben, “vita”), invece, si intende la percezione soggettiva delle esperienze, che potrebbe non essere necessariamente condivisibile.”

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